Siamo fuori ormai da un po’ dal lockdown e dagli anni bui del Covid-19, tempi che hanno cambiato il nostro modo di intendere e di praticare il lavoro. In ambito HR, nuove priorità si sono affacciate all’orizzonte e alcune di queste le conosciamo ormai da tempo con termini quali smart working, quiet quitting, work-life balance.
Tornati alla normalità, per le aziende, il problema di trovare talenti rimane inalterato, anzi pare ogni giorno peggiorare. Alcuni datori di lavoro, frustrati, si limitano a lamentarsi. Altri, più proattivamente, hanno provato a risolvere il problema offrendo salari più alti, maggiori opportunità di sviluppo e rafforzando la cultura aziendale per provare ad attrarre (e trattenere) collaboratori impegnati e produttivi. Purtroppo però, recenti ricerche di mercato suggeriscono che i loro sforzi non stanno spostando l’ago della bilancia. Infatti, secondo un recente sondaggio, solo il 17% dei lavoratori afferma che la propria occupazione è molto importante per la loro vita e identità, rispetto al 24% di soli sette anni fa.
È questa un’ulteriore prova della difficoltà che i leader incontrano quando si tratta di motivare il proprio team. Secondo gli esperti, i collaboratori non solo sono poco coinvolti nell’attuale occupazione, ma anche sono propensi a discutere apertamente con i propri responsabili i termini del ruolo, magari fissando precisi limiti, ad esempio su come e quando rispondere alle e-mail ricevute lungo le 24 ore o se e quanto spesso lavorare fuori orario oppure ancora negoziando la durata delle trasferte. Un vero e proprio shock per leader di una precedente generazione, cresciuti quando il lavoro e l’azienda erano elementi fondamentali per dare un senso all’esistenza.
È questa la nuova normalità?
Alcuni esperti sostengono che le aziende dovrebbero accettare questi cambiamenti di priorità, ormai consolidatosi durante la pandemia, come parte della nuova normalità. E ciò sembra ancor più vero per i lavoratori più giovani, che apprezzano l’equilibrio tra lavoro e vita privata assai più dei loro predecessori, anche perché, purtroppo, non ripongono grande fiducia nelle capacità delle aziende di garantire il loro benessere.
Infine, secondo questi studi, solo la metà dei lavoratori afferma di essere soddisfatta del proprio lavoro. I risultati dell’indagine potrebbero quindi suggerire che parecchie aziende non siano riuscite a ripensare i ruoli lavorativi e ad abbinare le persone a un ruolo a loro adatto.
E’ un compito non facile
Spetta ai leader rendere le persone più produttive all’interno dell’organizzazione e delle necessità aziendali? Probabilmente sì. Gli esperti sostengono che il management dovrebbe lavorare alla creazione di ambienti di lavoro più efficienti. Si può farlo assegnando incarichi precisi e con un obiettivo chiaro, offrendo ai dipendenti risorse adeguate e garantendo buona autonomia.
Rendere il lavoro più semplice e organizzato potrebbe contrastare questa carenza di passione, motivazione e identità che i collaboratori dicono di soffrire in azienda. La soluzione a lungo termine ai problemi di equilibrio tra lavoro e vita privata dovrebbe quindi concentrarsi sull’aiutare i dipendenti a operare in modo intelligente e produttivo, con meno stress e meno necessità di lavorare in modo prolungato e faticoso.
In realtà, per smuovere i team, i datori di lavoro spesso cercano di motivare i dipendenti utilizzando le tecniche bastone o carota, cioè minacciando conseguenze oppure, al contrario, aumentando retribuzioni o benefit. Secondo molti, però, questi approcci non modificano veramente la motivazione dei dipendenti. Secondo alcune analisi di Korn Ferry, oltre il 40% dei lavoratori ritiene che la propria azienda non stia facendo abbastanza, o in alcuni casi, nulla per incentivarli, il che porta a demotivazione, frustrazione e scarse performance lavorative. Un sacco di tempo e sforzo sprecati sia per i dipendenti, sia per i datori di lavoro che non riescono a sfruttare appieno il potenziale dei loro team.
E allora, come fare?
Il problema non è di facile risoluzione ed è legato a grandi temi come il ricambio generazionale, l’utilizzo di nuovi strumenti e l’insorgere di diverse priorità ed esperienze. Ciò detto, vorrei offrire 3 suggerimenti concreti:
- Consapevolezza che il mondo cambia. Anche se per i boomer è difficile comprendere le priorità delle nuove generazioni, qualche passo nella loro direzione andrà fatto, altrimenti si soffrirà ancora di più il ricambio generazionale. Analogamente, i nuovi arrivati dovranno cercare di capire come inserirsi al meglio in azienda, magari ricorrendo a termini oggi un po’ desueti come gavetta e formazione
- Chiarezza nel Talent Recruiting. Il candidato di oggi è il collaboratore di domani. Definendo con chiarezza e dettaglio, aspettative (che dovranno essere realistiche), modalità di lavoro e clima aziendale e proponendo il tutto ai candidati giusti (non solo a livello di competenze, ma anche di priorità, motivazioni e stili di vita), si potrà mettere la persona giusta al posto giusto e alleviare il problema della reperibilità di talenti
- Ripensamento dei ruoli aziendali in ottica di ottimizzazione e employee retention. Se le cose che facevamo prima non funzionano più, allora cambiamole. Meglio se un passo alla volta, portando i collaboratori in un viaggio che preveda la trasformazione dell’azienda verso un approccio più inclusivo, attento allo sviluppo delle persone e capace di fidelizzare i talenti. Perché cercare nuovi talenti è sempre più costoso che valorizzare quelli che abbiamo già
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