I pro e i contro delle diverse opzioni solitamente percorse dalle grandi aziende. Tra acquisizione di start-up, piani di integrazione e iniziative di partnership.
Amici del canale, secondo voi per le grandi aziende (siate voi o i vostri clienti) è meglio creare innovazione al proprio interno oppure acquisire delle start up di successo? Questa è spesso un’alternativa che le aziende si trovano a dover mettere sul piatto della bilancia: farsi esse stesse promotrici d’innovazione allocando risorse al proprio interno, oppure acquisire o integrare start up che si siano già rese protagoniste in quel un certo campo d’innovazione?
Creare innovazione
Per le grandi società, il vantaggio di creare proprie iniziative di start up (interne o esterne all’azienda) consiste nel fatto che queste ultime possono essere modellate sulle proprie strategie specifiche di business. Prendiamo il caso di Nestlé che ha inventato efficacemente Nespresso, una sua linea di caffè da casa allineata con il brand principale, i processi operativi, la gestione della catena di distribuzione dell’azienda e – cosa ancora più importante – con la cultura di riferimento. Lo stesso ha fatto Amazon che è passata da essere un distributore di libri acquistati online a quello di primario protagonista del mercato delle infrastrutture cloud, e non solo. Il lato negativo di un’azione simile consiste sia nel fatto che le grandi compagnie corrono rischi altissimi, in particolare per il supporto decisionale assolutamente necessario in ogni fase evolutiva del nuovo business. Tra i rischi principali di piani d’innovazione interni all’azienda rientra quindi il fatto che, onde ovviare alla naturale resistenza al cambiamento tipica delle aziende consolidate, vi è un ingente dispendio di risorse e un elevato rischio di fallimento. Molti ritengono che la percentuale di successo di piani d’innovazione interni all’azienda ammonti all’incirca al 10%, il che vuol dire che il 90% delle iniziative d’innovazione fallisce o comunque non porta a un significativo risultato.
Acquistare innovazione
Per acquisire innovazione, le grandi aziende fanno spesso affidamento sull’acquisizione di start up di successo. Abbiamo visto recentemente acquisizioni del controvalore di miliardi di dollari. Se anche l’azienda acquirente s’impegna a creare nuovo profitto in svariati modi attraverso l’upselling dei suoi prodotti ai clienti già fidelizzati dall’azienda acquisita (e viceversa), questa integrazione presenta comunque una forte dose di rischio: è infatti molto probabile che le culture aziendali non arrivino a combaciare perfettamente e che i processi produttivi della start up differiscano molto dalla supply chain tradizionale dell’azienda. Acquisire start up è quindi spesso un investimento molto costoso con una bassa percentuale di successo e, spesso, le multinazionali sono considerate il cimitero degli elefanti delle start up in quanto i manager delle aziende acquisite di frequente lasciano le aziende acquirenti non appena il contratto scade, e così facendo portano con sé ogni estro imprenditoriale. Se poi le fusioni coinvolgono aziende di nazionalità diversa, sorge il problema di quale lingua utilizzare. La più grande sfida nel processo d’integrazione sta quindi nella capacità di comunicare con efficacia senza perdersi negli effetti da ‘lost in traslation’. È solo un esempio, e neanche il più rappresentativo, di come fattori di ordine culturale (a partire dalla conoscenza delle lingue) possano influenzare la buona riuscita di un’operazione di fusione.
La scarsa attenzione alle persone
Un’altra problematica sensibile è la ‘scarsa attenzione ai temi legati alle persone’. I piani industriali successivi all’integrazione societaria spesso planano dall’alto, vengono gestiti in collaborazione con società di consulenza strategica e, a cascata, raggiungono i piani intermedi e la base. Un processo quindi etero-diretto e ‘top-down’ che non può contemplare le aspirazioni e le inclinazioni individuali. La strategia non è quindi spesso ben chiara fin dall’inizio o almeno non viene comunicata in sufficiente dettaglio. A doppio filo si lega il tema delle carenze sulle figure di raccordo deputate a gestire la transizione senza patemi. I rischi non vengono identificati nemmeno nella fase di ‘due diligence’ propedeutica all’operazione vera e propria. Qualche responsabilità è da ricondurre anche alla selva di consulenti esterni (legali, assicurativi, di marketing) che gestiscono ‘l’indotto’ di un’operazione di fusione/acquisizione. La sensazione è che però una buona parte delle fusioni che non creano valore per azionisti e dipendenti è da ricercare nelle scarse capacità di chi è alla plancia di comando. Management poco internazionali, spesso retaggio di un capitalismo familiare poco avvezzo ad andare all’estero, si mettono al timone di nuove società senza avere la necessaria caratura per gestire una struttura di tale portata. A ciò si aggiungono le possibili conflittualità di leadership che sopravvengono: infatti, il tema delle deleghe è sempre il più delicato. Infine una motivazione di carattere finanziario: spesso il prezzo è troppo alto. I multipli riconosciuti alla preda sono sbagliati. E ciò che ne deriva è il fallimento del progetto di costruzione di una nuova entità organizzativa che possa creare vero valore, essere competitiva sul mercato, arrecare benefici a chi ne fa parte. Così nella maggioranza dei casi la cartina di tornasole delle fusioni finisce per tramutarsi nello spauracchio di dipendenti e sindacati.
Nel mezzo: partnership tra gruppi aziendali e start up
Certamente c’è anche una via mediana (spesso un virtuoso compromesso) in cui i grandi gruppi aziendali si associano a delle start up, e in termini d’investimento diretto puntano poco su ciascuna di esse oppure, per quanto riguarda i fondi di avviamento del business, stabiliscono partnership limitate. Al fine di arrivare al cross-selling o ad attività analoghe, queste grandi aziende instaurano accordi che portano a relazioni commerciali con le start up selezionate. Spesso questo ‘corteggiamento’ è utilizzato per ottenere una maggiore conoscenza concreta dello specifico mercato, per mettersi poi nella giusta posizione al fine di poter incrementare i fondi in vista di futuri investimenti in tale ambito, oppure per inibire i competitor e non farli avvicinare troppo a queste start up innovative, o addirittura per togliere le start up dal mercato in vista di una loro successiva acquisizione. Il lato negativo di questo modello di partnership è che non è mai pienamente controllabile per la multinazionale. Al contrario, questa partnership è sempre soggetta ai capricci del leader della start up, che può agevolmente cambiare rotta a seconda di dove ritiene più appropriato andare. Amici del canale, sarebbe bello avere una vostra opinione a riguardo: qual è la strategia migliore per le grandi aziende? Le grandi aziende devono iniziare a comportarsi come start-up e creare innovazione al loro interno, magari creando piccoli gruppi di lavoro focalizzati? (primo.bonacina@soiel.it)
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