Al giorno d’oggi il lavoratore è al servizio del computer e sono pochi i computer al servizio del lavoratore.
Amici del canale, dove sono andati a finire quelli che un tempo erano considerati i ‘buoni lavori’? I buoni lavori di cui parlo sono quelli cui erano abituati i nostri genitori: lavori in fabbrica o in ufficio, stabili e costanti. La risposta è: che il computer li ha annientati! Per più di un secolo gli industriali hanno avuto un obiettivo ben preciso: formare lavoratori standardizzati che costruissero prodotti standardizzati. La catena di montaggio era quindi la regina indiscussa. La crudele logica dell’economia di mercato faceva però pressione sugli industriali affinché incrementassero la produttività. Per riuscire nell’impresa questi hanno dovuto ottimizzare la catena di montaggio e, ove possibile, ridurre il costo del lavoro. Allora sono state inventate le scuole pubbliche per offrire alle industrie operai e impiegati standardizzati e pronti per il lavoro. Più aumentava il numero dei lavoratori immessi sul mercato, più era possibile pagarli di meno o comunque sceglierli meglio. Ma insieme all’economia cresceva anche la domanda di manodopera, alimentando il boom edilizio, del commercio al dettaglio e del mercato di massa. Il computer e la rete hanno esacerbato questa corsa verso costi di produzione sempre più bassi accompagnati da risultati in tempi sempre più veloci. Il computer misura e fa il rendiconto con pazienza e la rete crea valore dalla connessione (la ‘connected economy’ assegna valore sia alle connessioni tra i nodi, sia ai nodi in se stessi). Innanzitutto se un proprietario di mezzi di produzione, capo di un’azienda o industriale riesce a trovare un fornitore che costa meno a qualità invariata, o migliore, è certo che lo sceglierà. In secondo luogo, una volta che ha suddiviso il lavoro tra i suoi dipendenti, può valutare il loro comportamento da vicino e capire come riuscire a massimizzare i risultati e minimizzare i costi. In terzo luogo, il computer è un lavoratore paziente, costante ed economico.
È importante capire la vera portata di questa rivoluzione
Oltre un secolo fa la macchina per cucire Singer rappresentava uno dei prodotti di consumo più complessi mai costruiti. Ogni singolo pezzo era montato a mano. I pezzi di ricambio dovevano essere adattati manualmente. In assenza di manodopera specializzata una macchina del genere non poteva esistere. Oggi, al contrario, è possibile costruire praticamente tutto semplicemente specificando i componenti, inviandoli a un’officina di montaggio e ricevendo il prodotto a domicilio. Al giorno d’oggi il lavoratore è al servizio del computer e sono pochi i computer al servizio del lavoratore. Certamente esistono ancora dei lavori essenzialmente non misurabili o così unici da non poter essere sostituiti facilmente. Ed è proprio qui che sopravvivono i ‘buoni lavori’. Per il resto il discorso è molto semplice: o sei tu a servizio del computer o è il computer a servire te. Per eccellere la scelta è obbligata: o lavori alle specifiche per la creazione di un prodotto oppure utilizzi nuovi strumenti che creino discontinuità con una tradizione consolidata e che lascino a te il ruolo di figura cardine, di cui difficilmente il mondo potrà fare a meno.
E la rete? Cosa ne è della connected economy?
Alcuni hanno deciso di tenersi fuori dalla rete. Per certi versi si tratta di un isolazionismo comprensibile. Nella corsa al ribasso cui assistiamo quotidianamente, uno dei ruoli chiave dei governi è di costruire dei binari, di stabilire i limiti e di assicurare che le norme siano rispettate. E, come se non bastasse, occorre lavorare per preparare i cittadini a ciò che li aspetta in futuro. Ma quando questo non accade si punta subito il dito contro la rete che, come una tubazione rotta, non è in grado di soddisfare le esigenze delle persone che vogliono utilizzarla. Eppure la connected economy crea sempre valore. Forse non per tutti e non in ogni posto, ma essa viene adottata proprio perché funziona. La nostra sfida nel breve periodo non è quella di far tornare in vita i buoni lavori, cosa tra l’altro estremamente improbabile, ma di abbracciare un modo di pensare e un’idea di formazione che prepari a un mondo diverso. E il nostro compito, ma soprattutto di chi ci dirige, è di costruire e mantenere una rete di sicurezza che ci protegga durante questa transizione. La gente non ha chiesto questa rivoluzione. Negli ultimi quarant’anni, mentre i computer smantellavano pian piano le fondamenta del sistema, non abbiamo fatto praticamente nulla per adattare le scuole. Le famiglie e le istituzioni hanno chiuso gli occhi prestando attenzione solo ai voti. Quando uno studente dice: “Non voglio inventare, programmare e non sono interessato alla vendita” dovremmo fermarci un attimo e riflettere su a cosa servono le nostre scuole. E quando lo stesso studente continua dicendo: “Non ho intenzione di impegnarmi per fare qualcosa che possa cambiare il mondo, ma sono molto bravo a seguire le istruzioni,” dovremmo capire che siamo sull’orlo di un burrone proprio a seguito del brusco cambiamento nella nostra cultura. Eppure bisogna ammetterlo: c’è una quantità enorme di nuovi lavori ‘buoni’ anche se profondamente diversi da quelli del passato. Sono diversi dai lavori cui eravamo abituati, ma rappresentano l’occasione della vita se riusciamo a cambiare marcia velocemente.
Qualche domanda per il canale
In questo scenario, la formazione ha un ruolo chiave, ma purtroppo un’organizzazione miope decide di risparmiare tagliando sulla formazione; dopotutto pensare a breve termine funziona, per cui a che serve addestrare le persone se poi andranno via? Al contrario, si può porre la questione in altri termini: cosa si rischia a non addestrare le persone che rimangono? È facile essere d’accordo su casi ovvi come questi, così come è molto facile per una persona trovare un buon lavoro se ha curato da sé la propria formazione; mentre è molto difficile se non ha alcuna formazione. Ma la vera difficoltà è assumersi la responsabilità di provvedere da sé alla propria formazione. È oramai lontano il tempo in cui società e aziende si preoccupavano di educare le persone e di fornire loro i mezzi per affrontare i problemi… Ora dobbiamo cavarcela da soli. Non c’è più tempo da perdere; le aziende di maggiore successo hanno già cominciato a cambiare. Il canale IT è pronto a smettere di essere sempre in emergenza? È pronto a smettere di procrastinare gli investimenti per il suo futuro a tempi migliori che non verranno mai? Ancora meglio, il canale IT che ne pensa di quest’opportunità? Assisteremo passivi al cambiamento o lo guideremo? Il canale IT è pronto a smettere di essere sempre in emergenza? È pronto a smettere di procrastinare gli investimenti per il suo futuro a tempi migliori che non verranno mai? È pronto a cambiare giorno per giorno, costruendo i nuovi ‘buoni lavori’?
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