Lo Smart working e le chiacchiere alla macchinetta del caffè

Meglio il lavoro in ufficio e il valore dei rapporti personali o l’efficienza dello smart working? In realtà è possibile trovare il modo di coniugare i vantaggi offerti da entrambe le situazioni

Tutti i giorni parlo con imprenditori e manager che sono combattuti nel principale dilemma post-pandemico: cosa vuol dire in concreto smart working post-pandemia?

Si torna in ufficio? Si opta per un lavoro primariamente da remoto? Oppure una via di mezzo? E se una via di mezzo, come codificarla?

Per esempio:

  • Liberamente: ognuno fa come vuole, all’interno del suo ruolo e responsabilità?
  • Coercitivamente: in sede dal martedì al giovedì, liberi gli altri giorni?
  • Caso per caso: liberi tutti, ma, quando convocati, venite in sede?
  • Oppure che altro ancora?

In realtà, sono parecchi i manager che sostengono: «Adesso basta smart working. Torniamo a guardarci in faccia!».

Lo scettico dell’ufficio virtuale dice che: «Non possiamo continuare a lavorare da remoto, perché la serendipity che deriva dalle connessioni personali è troppo importante».

Smart working e il valore della serendipity

Ok, magari non hanno proprio usato la parola serendipity (termine coniato nel 1754 dallo scrittore Horace Walpole che lo trasse dal titolo della fiaba The three princes of Serendip) ma il concetto era quello.

La serendipity è letteralmente la capacità o fortuna di fare inattese e felici scoperte, mentre si sta cercando altro.

Per molti la teoria della serendipity è convincente. Quando si va a un evento fisico, non si ascoltano solo gli interventi: si guardano gli stand, si incontrano persone, vengono idee a volte inattese che non emergerebbero seguendo un webinar.

Ma c’è di più. Coloro che sono contrari a smart e remote working sostengono che le conversazioni al boccione dell’acqua e alla macchinetta del caffè, o gli incontri nei pressi dell’ascensore creano un legame tra le persone.

Aggiungete a tutto ciò la felice coincidenza di ascoltare casualmente una conversazione in cui avete qualcosa di utile da aggiungere o di vedere qualcosa sullo schermo di un collega e di poter dare un contributo e il dado è tratto: meglio riportare tutti in ufficio!

Ovviamente, questa teoria trascura è che, in un ufficio di dimensioni significative, si incrocia solo una minoranza delle persone che vi lavorano. Se queste sono su un altro piano o dall’altra parte della strada, potrebbero anche essere in un altro continente per quanto riguarda la serendipity.

Non solo. I contrari allo smart working sostengono che, quando si è lontani, non si è veramente controllabili.

Abbiamo letto storie di persone che riuscivano a fare due lavori contemporanei a tempo pieno operando da remoto. Sicuramente è possibile: se si passa il tempo a falsificare il calendario, a gestire video meeting in collisione tra loro, a vivere cercando di non venire scoperti, si può farla franca per un po’ (anche se una persona con tutte queste energie mentali potrebbe probabilmente avere successo in modo migliore nella vita).

Ma è questo veramente il punto? Sono alcuni trasgressori ciò che ci farà optare per un ritorno in ufficio?

La vera sfida del lavoro a distanza

Chiariamolo subito: sono personalmente favorevole al lavoro (parzialmente) a distanza, e, soprattutto, al lavoro smart.

Tuttavia, per esempio, non è smart passare un’ora bloccati in tangenziale, consumando benzina, producendo anidride carbonica e incidenti stradali. Per me smart vuol dire appunto furbo, intelligente: si va in ufficio quando è utile, non ci si va quando è inutile

Cosa è utile e cosa non lo è lo decide in parte il management aziendale, in parte il collaboratore. Alcuni fanno fatica a concentrarsi a casa o non dispongono di una zona lavoro adeguata o abitano in un’area rumorosa o necessitano di sentirsi parte di un gruppo e hanno bisogno di vedere più persone possibile oppure, molto prosaicamente, non hanno piacere di stare 24 ore al giorno nelle vicinanze del proprio partner.

Però, la vera sfida del lavoro a distanza non è che si cancella la misteriosa serendipity delle magiche collisioni in ufficio.

Il problema è che creare connessioni digitali utili richiede organizzazione e impegno, capacità mentali, il voler fare accadere attività di cui l’azienda tragga vero beneficio. Richiede motivazione e disciplina.

Se lo facciamo con intenzione, in modo strutturato e organizzato, in realtà il lavoro smart funziona meglio di quello tradizionale in diverse condizioni:

  • possiamo collaborare in tempo reale su documenti condivisi con persone che non saremmo in grado di incontrare facilmente faccia a faccia;
  • possiamo improvvisare una sessione di brainstorming di 15 minuti e ritrovarcela trascritta automaticamente in un documento condiviso;
  • possiamo cucinare qualcosa di salutare a casa;
  • possiamo gestire un imprevisto personale e poi recuperare fino a tardi;
  • possiamo finire il lavoro nel tempo che avremmo dedicato alle 2 ore e mezza in tangenziale + attività correlate (un’ora all’andata, un’ora al ritorno, mezzora per fare la borsa e mettere e togliere giacca e cravatta). avendo così più tempo libero per noi e le nostre famiglie.

La vera magia del lavorare in ufficio era che stavamo avendo queste connessioni inconsapevolmente.

Non è che fossero migliori, è che erano senza sforzo. Eravamo tutti lì.

Ma non funzionavano per tutti allo stesso modo. Spesso rafforzavano i ruoli e i privilegi di status. Queste connessioni erano distribuite in modo non uniforme e di solito non accadevano quando ne avevamo bisogno.

Con lo smart working non condividiamo le merendine al distributore automatico. Ma se ci impegniamo e se ci organizziamo, possiamo condividere parecchio di più. Ne vogliamo parlare? 

[per leggere l’articolo sul sito della rivista clicca QUI]

Leave a Reply