“Una generazione pianta gli alberi, un’altra si prende l’ombra”, proverbio cinese.
Amici imprenditori e manager, l’intero arco delle istituzioni, compresi i partiti politici, i governi e le società (in particolare quelle quotate in borsa), di questi tempi sembra indirizzarsi sempre più verso iniziative a breve termine tese a vantaggi di corto respiro, verso una sorta di bullismo e prevaricazione, verso il comportamento anticoncorrenziale e la pigrizia mentale. Non penso solo al politico interessato al sondaggio della settimana e capace solo di parlare alla ‘pancia’ delle persone (e quanti ne abbiamo!). Anche nelle aziende è più facile assecondare l’onda che contrastarla. Facciamo alcuni esempi:
- Quando un dipendente (o un manager) si comporta male, non fa il suo lavoro, non porta un reale contributo alla causa comune, spesso i colleghi e collaboratori sono costretti a lavorare il doppio o comunque a trovare strade alternative per ottenere il risultato.
- Anche a me è capitato di avere un capo che non stimavo e di dovermi ingegnare per far comunque succedere cose che mi interessava succedessero.
- A volte, ci si trova in presenza di un collega ‘difficile’ e a dover usare tutte le cautele del caso per aggirarlo, con grande sforzo e perdita di tempo.
- Analogamente, se perdi un business perché i concorrenti usano pratiche sleali, la strada che appare più facile è competere allo stesso modo.
È fisiologico. L’acqua va in discesa. Si cerca sempre il cammino di minor resistenza. E lo stesso succede quando i dipendenti di un’azienda vengono ricompensati per azioni a breve termine che portano solo a guadagni immediati. Il cattivo comportamento si accentua. Ricordo perfettamente situazioni di funzionari commerciali di vendor dell’IT pagati sui risultati trimestrali, dove la tensione a chiudere ogni business entro il ‘quarter era alta e poco sana, con ‘il rischio di prendere rischi’.
Ma anche se il business che si prendeva era sano, il cliente aveva buon gioco nel dire “se vuoi l’ordine oggi mi devi fare un super sconto, altrimenti l’ordine te lo faccio più avanti quando mi serve effettivamente”. Insomma, si resta intrappolati in un meccanismo di breve termine che premia nell’immediato ma, di sicuro, penalizza nel medio e lungo periodo.
Un vero leader dice anche dei no
Il problema è che tutti i mercati competitivi a breve termine incentivano naturalmente risultati a breve termine. E, in particolare, fa sì che non abbiamo mai tempo per fare ragionamenti e conversazioni difficili che portino a un cambiamento culturale positivo, a una vera trasformazione. Ma c’è un’alternativa. L’antidoto è la vigilanza persistente, la leadership capace. L’alternativa è avere dei leader che (indipendentemente dal titolo, non è necessario che siano dei top manager: tutto ciò può avvenire anche ai livelli bassi dell’organizzazione) dicano, quando è necessario: “Questo non lo accetto!”. Queste persone sanno che l’opportunità per migliorare le cose va colta quando si presenta. Certo, è estenuante, perché la vigilanza è un lavoro da fare tutti i giorni. Ma è per questo che rappresenta un’opportunità straordinaria. Non solo per voi come azienda, ma anche per voi come persone.
Parliamo di azionisti e mercati azionari
I mercati azionari possono offrire molto a un’azienda. Liquidità adesso e per il futuro. E uno status che aiuti la visibilità, le vendite, il recruiting di collaboratori e la fidelizzazione dei clienti. Però le società quotate si portano addosso un peso: sono di proprietà di persone o società (gli azionisti) che potrebbero vendere le loro quote in qualsiasi momento. E altri possono prendere il loro posto in un istante. Questa ‘proprietà flessibile’ è la regola costituente del gioco, bello o brutto che sia. Ciò fa sì che non si possa contare sul fatto che coloro che possiedono la vostra azienda abbiano una visione a lungo termine. O magari ce l’hanno, ma la loro definizione di lungo termine non coincide con la vostra.
Premiare gli azionisti o gli stakeholder?
Per chi deve lavorare una grande impresa? Per gli azionisti o per un’intera comunità (azionisti ma anche dipendenti, clienti, mercato, ambiente, città…) nella quale questa è inserita? Fino a pochi anni fa, il dilemma non esisteva. Era stato Milton Friedman, un economista del secolo scorso famoso quasi quanto Keynes, a dare il fondamento teorico alla missione delle imprese: creare valore per gli azionisti, lasciando perdere il resto, che sarebbe poi venuto di conseguenza… Dopo 50 anni, la teoria del primato degli azionisti ha però iniziato a vacillare con lo sviluppo della rivoluzione digitale, la crisi finanziaria del 2008, l’aumento delle disuguaglianze e infine con qualcosa di ancora meno controllabile: la crisi climatica. Nel mondo delle grandi corporation sono iniziati a sorgere dubbi sulla sostenibilità dello schema miltoniano per la sopravvivenza stessa del capitalismo e dei suoi derivati.
Un grande filosofo del secolo scorso, Martin Heidegger, aveva già visto che il progresso spingeva verso l’impossibile, se assecondato ciecamente. In uno scritto annotava: “La betulla non oltrepassa mai la sua possibilità. Il popolo delle api abita dentro l’ambito della sua possibilità. Solo la volontà dell’uomo, che si organizza con la tecnica in ogni direzione, fa violenza alla terra e la trascina nell’esaustione, nell’usura e nella trasformazione dell’artificiale. Ciò obbliga la terra ad andare oltre il cerchio della possibilità che ha naturalmente sviluppato, verso ciò che non è più il suo possibile, e quindi è l’impossibile” (‘Oltrepassamento della metafisica’, tr. it. Mursia, Milano 1991).
La sensazione che lo ‘shareholderism’ di Friedman spinga troppo verso la dimensione dell’impossibile (meglio: dell’insostenibile) sta diffondendosi anche tra l’élite del capitalismo e prende piede l’idea che occorra invece muoversi dentro un perimetro preciso, nel quale siano attivi gli interessi di molteplici soggetti. Approdare, allo stakeholderism, una teoria più bilanciata tra gli interessi di tutti, sarà un cammino complesso, irto di ostacoli e non facilmente compatibile con logiche egoistiche di breve termine. Come detto nel titolo di questo articolo, “Una generazione pianta gli alberi, un’altra si prende l’ombra”. E questo richiede grande generosità.
La cruda verità è che, per compiacere gli azionisti, può capitare che gli altri stakeholder ci perdano. Perché il primato dell’azionista fa sì che ogni volta che una società cerchi di servire uno dei loro altri costituenti, debba spiegarlo agli azionisti. Se questo accade, quello che un’azienda sta effettivamente facendo è servire gli azionisti. Non solo servirli, servirli subito!
Grazie agli interessi a breve termine delle persone che negoziano azioni, c’è la pressione di possedere titoli che aumentano il loro valore oggi, non di possedere quote di un’azienda che vi renda orgogliosi a lungo termine. A volte, la leadership illuminata e potente di un’azienda è in grado di ignorare i lamenti degli azionisti (“Se non ti piace dove sta andando questo autobus, scendi!”). Ma nel tempo, questa forte risoluzione spesso svanisce. L’ho visto in prima persona in alcune aziende. Quando tutti quelli intorno a te stanno guardando il prezzo delle loro azioni, è difficile scegliere la cosa più giusta per il lungo termine. Se volete gestire un’organizzazione di cui essere orgogliosi, scegliete la proprietà con la stessa attenzione con cui scegliete i dipendenti. Ne vogliamo parlare?
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Analisi precisa. Complimenti. A mio avviso la questione nasce da quando il ruolo fra pubblico e privato si è confuso e mischiato. Fino a quando il ruolo dello Stato era forte, almeno in alcuni ambiti, questo creava per le aziende la libertà di perseguire il massimo interesse per i proprietari ( come è giusto che sia). Con le privatizzazioni a cascata dagli anni 90 abbiamo iniziato a delegare funzioni e competenze regolatrici ad aziende private. Oggi investiamo le aziende di principi etici e morali che non gli appartengono e di cui non devono farsi carico. Lo trovo profondamente sbagliato sia per la società sia per le imprese.