Con lo stesso fervore riservato ad argomenti come Quiet Quitting (fare al lavoro il minimo indispensabile) e Acting your Wage (agire secondo il proprio stipendio, inteso come: ti pagano poco? E allora cosa pretendono?!), proprio mentre scrivo, alcuni lavoratori stanno discutendo online – e in alcuni casi protestando apertamente – sul fatto che diverse aziende USA stanno incrementando le riunioni ad orari inusuali, tipo le 8 del mattino o le 6 di sera). Clamoroso il caso di un video su TikTok dove un lavoratore statunitense della generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2012, cresciuti con Internet e social media) afferma che salterà la riunione delle 8 perché a quell’ora ha palestra. Questo video ha avuto 30 milioni di visualizzazioni in due settimane, oltre a parecchi commenti del tipo: Se dobbiamo essere in ufficio per la riunione delle 8, poi ci lascerete uscire senza problemi alle 16?
Solo chiacchiere sui social o c’è di più?
Secondo gli esperti, il dibattito sulle riunioni fuori orario canonico è assai più di un semplice rumore di fondo. È piuttosto una sfida alla leadership di manager abituati a pensare e agire in un certo modo prima della pandemia e che ora intendono riprendere le precedenti abitudini come se nulla fosse successo. L’organizzare una riunione alle 8 (leggi: zero flessibilità, occorre essere tutti in ufficio alle 7:45 per iniziare puntuali), piuttosto che, all’opposto, il consentire ai dipendenti di lavorare da remoto (leggi: massima flessibilità), è ora considerato un indicatore significativo sul tipo di azienda che un leader intende creare.
Prima della pandemia, tenere una riunione così mattutina avrebbe forse potuto causare qualche lamentela, ma non era qualcosa a cui molti dipendenti avrebbero reagito con rabbia oppure respinto attivamente. Tempo fa, c’erano addirittura aziende che vietavano le riunioni interne dalle 9 alle 17, pensando che la parte centrale del giorno dovesse venire dedicata ai clienti. Se i colleghi avevano bisogno di incontrarsi per discutere di temi interni, erano obbligati a farlo alle 8, concludendo per le 9 oppure dalle 17 in poi, procedendo ad oltranza. Come si può immaginare, questa regola portava automaticamente a ridurre il numero delle riunioni e quelle rimanenti venivano solitamente gestite in modo sbrigativo.
La pandemia ha sconvolto la routine lavorativa di miliardi di persone e ha anche fatto sì che si mettessero in discussione le proprie priorità. Per molti, è diventato impensabile iniziare la giornata combattendo contro il traffico delle 7 per essere pronti e produttivi in ufficio prima delle 8. Inoltre, convocare una riunione alle 8 vuol dire mettere in difficoltà i colleghi che devono portare i figli a scuola o che hanno altre responsabilità mattutine oltre che, ovviamente, allungare la giornata visto che è raro riuscire a uscire in anticipo. Il messaggio che passa diventa quindi: torniamo al lavoro come elemento primario della giornata in barba alla work-life balance. E la domanda fondamentale da porre al manager che piazza la riunione alle 8 è: stiamo risolvendo una questione di produttività oppure culturale?
Dopo la pandemia, si lavora di meno?
Da parte loro, diverse aziende affermano di essere preoccupate per la produttività dei lavoratori dopo la pandemia. Le indicazioni di rientro in ufficio e le limitazioni poste allo smart working (raramente pienamente accettato, a volte negato, a volte tollerato a fatica) hanno aiutato, dicono, ma alcuni manager riferiscono che le persone arrivano spesso in ritardo o se ne vanno presto oppure che, con la scusa dello smart working, scompaiono e non si sa dove sono.
La speranza di alcuni manager è che le riunioni mattutine o serali siano funzionali a iniettare energia e senso di appartenenza al team. Tuttavia, gli esperti sostengono che i leader dovrebbero ben spiegarne lo scopo. Fissare incontri alle 8 del mattino è forse un modo per dividere coloro che sono disposti a integrarsi nella cultura aziendale da coloro che non lo sono?
Venendo poi all’Italia, è recentissima la sentenza 2084/2024 della Cassazione che ha ribadito che il datore di lavoro, rispetto alla salute dei dipendenti, non può limitarsi al contrasto e alla prevenzione del mobbing, ma deve agire in caso di ambiente lavorativo troppo stressante ed evitare danni alla salute dei dipendenti. E questo anche se ciò che ha provocato la sofferenza non è qualificabile come mobbing. Insomma, come al solito, ci troviamo su un crinale scivoloso.
Quali raccomandazioni?
La verità è che lo smart working e suoi impatti sul lavoro, la produttività, la vita personale e il modo di concepire la società stessa è “IL” dibattito di questo decennio. Vi lascio quindi con 3 riflessioni:
- Chiarezza: quale e quanto smart working, quale e quanto work alcoholism, quale e quanta tensione al risultato a prescindere da tutto e da tutti (vincere non è importante: è l’unica cosa che conta, cit.), deve essere un elemento culturale chiaro fin da subito. Anche e soprattutto nelle fasi di recruiting. Soprattutto per evitare crisi di rigetto, ricevendo o dovendo forzare dimissioni premature
- Pragmaticità: ma davvero la riunione delle 8 o delle 18 serve (al bene dell’azienda)? Ma davvero zero smart working serve (al bene dell’azienda)? Se sì, spieghiamolo ai collaboratori. Se no, cambiamolo. Se forse, rivalutiamolo continuativamente
- Consapevolezza: il mercato del lavoro cambia ogni giorno, così come le aspettative delle generazioni che si succedono. Secondo dati INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), nel 2023 il 37% dei lavoratori in carica aveva più di 50 anni contro il 21% nel 2005. Una crescita clamorosa in meno di 20 anni. Una volta si diceva gli immigrati fanno il lavoro che gli italiani non vogliono più fare. Adesso si direbbe che gli anziani (fino a quando non si estingueranno …) fanno i lavori che i giovani non vogliono più fare. Però, se il mercato inesorabilmente cambia, imprenditori e manager non possono rimanere costantemente legati a vecchi stereotipi, pena il rimanere da soli.
[per leggere l’articolo sulla rivista clicca QUI]